destinazioni e premi
Aspiravo al deserto: passeggiavo verso linee non ben formate di declivio. Tendenze. Forse sapevo di me. Di già.
Possibile che nei giorni di ciascun inverno infantile grigio splendente e infinito conoscessi di non poter sfuggire la solitudine?
Un ricordo emerge improvviso come origine di adesso. Che il deserto era già nel cielo di mercurio che il tempo, e lo vedevo come una mano lieve e determinata, avrebbe disteso, ribaltato, ai miei piedi.
Ora che il caso di un timbro atmosferico traccia un’ansa tra ‘allora’ e ‘oggi’ la narrazione non è più lineare.
È estensione operante. Perché, se era già questo quell’antico me, ho agito secondo un io diffuso. Non puntiforme.
Siamo tutti, mi chiedo, nel ricordare imprevisto e improvviso, identità a geometria variabile, o, insomma, reti e intersezione di linee temporali coesistenti?
L’io in questo caso intercetta la vita più o meno avidamente secondo una seducente metafora. Concludo.
In questo frangente l’io non è più solo una rete da pesca ma una gelatina anatomica in cui risiede una funzione avvolgente di dimensioni oceaniche.
Ne leggo la calma superficie. È il cielo di allora. Un evento che sapevo possibile.
Un evento restato aperto per tutta la vita e tutt’ora attivo. L’arco di tempo di un ricordo fa di me la porta del cielo e della terra.
Tutto questo subito scompare assorbito nella coscienza di altre differenti impellenze.
L’argomentazione trascorre in una una ‘premonizione’ prima di svanire.
Il pensiero sospinto dalla biologia non somiglia alla riflessione.
È piuttosto una migrazione che ha il deserto come destinazione e premio.