virgole
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”Sometimes (I fill good)”
(Polaroid)
Mesopotamia. Il pavimento ha al centro un materasso e la pianta della baracca imita il quadrante d’un orologio. In quella ‘prigione’, disteso, fantastico la grande ruota verticale del lunapark sul lungomare adriatico. Sul mio soffitto invece le pale del ventilatore inaugurano la prima scena di Apocalypse Now.
Perché d’una apocalisse ascolto. Come fa un regime fascista ad ottenere il consenso degli intellettuali, come si ottiene il consenso di una generazione alla guerra, fino a quando si può davvero parlare che i governanti stanno esercitando democraticamente il potere, intorno a quale evento la storia svolta e cambia fisionomia. Sono le domande del ciclo di conferenze che ascolto su Youtube su “Storia e fascismo”.
Di fatto sto girando il valzer con vari dotti compagni che sanno il fatto loro a proposito dei fatti nostri e mi parlano all’orecchio rumorosi e gelosi ciascuno delle proprie ipotesi su come può essere successo. Perché di certo è successo.
E succederà di nuovo, penso io. E penso che c’è una zona grigia che si dilata alla lettura delle loro parole. Ascolto qua in Mesopotamia interpretazioni attuali che svelano le falsificate interpretazioni di cento anni fa a proposito del significato da attribuire alle rivoluzioni. Che il fascismo si ritenne definitiva prima ultima unica e irreversibile rivoluzione.
Non si fa che interpretare il passato, penso mentre il ventilatore gira indifferente.
Il pensiero, ora che sto qui sul quadrante di brevi giorni, non ha di che interpretare. Qui il pensiero è un trampolino che mi fa volare dal ventilatore alla grande ruota sul litorale. E anche all’inverso senza difficoltà.
Si capisce tuttavia che il volo nello spazio della memoria tra quei due punti lontani non fa una storia. Fa il tessuto che ordisce il presente nel mezzo di una stanza posta esattamente nella terra in mezzo ai fiumi. Ecco, appunto, la Mesopotamia. Non altro.
Gli storici intanto si alternano sul palco con le prove che una generazione di giuristi e storici poi due generazioni e poi una valanga di nipoti si misero silenziosamente, non si sa se convinti o asserviti, in marcia di arruolamento affiancati ai plotoni di esecuzione in grigioverde.
Grigioverde, penso, dev’essere il colore acido che la storia assume nelle proprie inattese crisi di epilessia. Il colore di una invisibile deformità che tanti trovano tutt’ora affascinante.
Gli storici di ora raccontano il fascino che dovette esercitare, su reggimenti di storici uguali a loro, avi adesso sconfessati, la maligna capacità di fornire versioni avvelenate di ben più lontani fatti.
Ma a me -ad ascoltarli così instancabili nel succedersi a misurare le falsificazioni che avvalorarono decisioni politiche che dispersero con rapidità futuristica milioni di persone- a me, dicevo, non mi viene da giudicare. Mi viene da pensare che uno storico non dorme mai.
Mi viene da dirti che, alla luce delle loro insonnie, il mondo soffre le convulsioni della storia che sfuggono costantemente alla comprensione attuale di ciascuno.
Gli storici, questi che ascolto, dopo secoli, mi avvisano degli esiti della loro insonnia.
E allora, forse per il tepore della tua vicinanza, assisto, sempre più disinteressato, alle loro tardive contorsioni intellettuali.
In fondo qua è Mesopotamia. Trai fiumi delle tue braccia.
E il mondo, come si può osservare da qua, piuttosto che aspirare ad ulteriori parole, va in cerca delle cure di un chiropratico.
Anche io, rosso d’amore quotidiano -che ha la permanenza dei legami di fedeltà ma non si può inquadrare con qualche senso nei grandi schemi dei rivolgimenti di sovversione e di reazione che caratterizzano i grandi eventi collettivi- resto al centro del quadrante di una stanza che al più mi consente di valutare una giornata.
Ascoltando gli studiosi non mi illudo più di potermi formare secondo la logica sottesa a quelle loro ricostruzioni.
Non saprei dove mettermi in quelle smisurate distese. Non trovo la panchina di un istante dove riposare. È difficile, restando accanto a te, scegliere, sulla scacchiera della vita mia, una casella la cui area aggreghi durate più estese di un giorno e una notte.
E poi ho scoperto che ogni risveglio, per gli appartenenti alla specie umana, è una vera e propria singolarità.
Che ha come conseguenza che queste notazioni mattutine sono occasionali e definitive insieme.
Finisce la storia nei tuoi e miei occhi semichiusi che raccolgono l’acqua marina del sonno che sfinisce tra i capelli e sulla punta delle dita.
Dita agitate piano, tra buio e lenzuola ruvide e calde, nella stanza mesopotamica.
Non scriveremo più non parleremo più resteremo cosi accanto. Senza un padrone culturale. Non mi affascina un duce. Il male è la retorica dei superlativi.
Per fuggire la storia ti stringo. Il corpo non è retorica. È minimalismo. Tacerò per sempre le conseguenze del calore in mente che sei tu.
La vicenda che oggi conosciamo insieme potrai trovartela incisa addosso svegliata dalle dita sapienti di chi non scriverà più dopo di te. Simile a me.
Sul materasso in mezzo alla stanza penso a quello che sempre vorrei dirti. Ma la storia delle parole che non si fa in tempo a dire non si scrive.
Restano a costruire il futuro. E il futuro non ha una storia. Siamo noi adesso la storia del dopo.
Quella modesta storia gira sulla testa. Le pale del ventilatore inventano una corrente sostenibile. Un flusso di pensieri aerei.
Che strana storia questo tempo che possiamo sopportare muti.
La mente per svegliarsi realizza ogni mattina una terra differente secondo la differente composizione dell’aria.
Per questo il presente ogni giorno è una terra lontana.
Io ho respirato il tuo corpo nell’intimità. Là dove l’aria è pensiero.