Ora va bene. Lo sai. Puoi farcela da solo.
È noto a chi si occupi d’amore che uno dei problemi principali di fronte ai quali l’innamorato si trova sono le vacanze dell’amata lontano da lui: il suo amore si assenta l’innamorato subisce una frustrazione.
La scienza non risolve l’assenza. O, detto diversamente, l’amore non sopporta l’altrui transitoria deriva.
C’è un prima e un dopo la tua partenza: eri qui fino ad ora ma ora non sono certo che ritorni.
Finora si è lavorato sui pilastri prima e dopo sui quali si è poi gettato un audace viadotto che affaccia sul periodo privo di te (e di senso) che resta vuoto incolmabile.
È la crisi di panico, la fobìa, la vertigine.
Lontano da te ho in mente il tuo fantasma cui chiedo di insegnarmi a non pensare a quel che stai facendo, a non fantasticare che sia proprio ciò che temo: ché quel che temo è ciò che farei io fossi lontano: quel lontano facile quando sono io che andando via stabilisco la distanza.
Quando ritornavi tutto si appianava, senza che però, di struttura, io fossi veramente guarito.
E non lo ero perché il fatto che di nuovo fossi tornata mi convinceva che l’ipotesi del ritorno godesse di una statistica più favorevole, ma non poteva escludere definitivamente l’ipotesi opposta.
Certo! qualcosa avevo ottenuto nelle estenuanti sedute d’amore con te che avevano l’effetto di corroborare l’ipotesi più rassicurante.
Ma non furono segni di guarigione gli stati d’animo nuovi che sfogavo in rossori trepidi in sfreccianti esaltazioni e in sfacciata esultanza dopodiché tornavo a dubitare sicché necessitavo di ulteriori interminabili rassicurazioni.
L’incredulità che potessi amarmi restando fuori dal destino d’essere qui sempre di nuovo è una malattia.
Allora, controvoglia, mi sono messo a recitare il mantra che – essendo tu niente affatto accudente e pietosa – ogni volta che vai lontano più non torni: e a questa idea estrema mi passa per la testa che l’amore consista nel salire da solo in cima alla tua assenza per vederti nella valle di là a insegnarmi come si aggirano le trappole retoriche della colpa e la mia incurabile precarietà.
Ho scritto:
Eri partita/
Era già dopo/
E non ritorni.
Così questa volta non mi è stato necessario, per sostenere il tempo della tua vacanza, pensarne la conclusione.
Estendendo l’orizzonte del tuo viaggio fino all’indistinto il come t’amo di quando sei partita dilaga con lo sguardo e non finisce perché se sono capace di sostenere un giorno senza noi posso moltiplicarlo a piacimento. E, come fossi entrato nella tua mente, ti ho sentito pensare che va bene. Che mentre partivi forse volevi dirmi: puoi farcela da solo.