museo domestico
Il ferro dell’identità. La ceramica della forza d’animo. E la tela dipinta che resta ancora da esporre. Questo ricordo di oggi.
Che l’intelaiatura mostrava in trasparenza la forma esatta della maturazione evidente dell’opera nell’accentuazione del rosso-bruno del ferro.
Che la scultura di ceramica lucida nera chiamava le carezze: faceva scivolare gli sguardi nelle convessità e li lanciava in cielo dagli spigoli acuti.
Una donna al confine di un secolo parlava di gioia come mèta e percorso. Le sue magre parole ridenti la scolpivano una figura più viva di noi. Mi ha fatto invidia.
Per superare la crisi ho dovuto diventare una bimba che gioca nelle pozze del dopo uragano. Importuna con la sua fierezza di tutto quel fango sul vestito. Un po’ è servito.
Noi due intanto si passeggiava tra ninfee di un museo domestico di estensione indefinita nello spazio e nel tempo.
Le tela dei quadri erano bandiere. Le ore rubate erano il bottino di una nave corsara. La nave eri tu mutevole e muta.
Io riflettevo che con te accanto la mia presenza è un riflesso sul mare. Ma riesco sempre a mantenere l’opportunismo ruffiano di un dubbio ben fondato.
Ed è questa aristocrazia di morire solo un poco ma poi non morire mai che ti stupisce e ti fa tornare poiché la magia mi viene facile.
Ho il trucco di trasformare il sangue vivo in pomodoro della costa partenopea. Ti piego così al ridente rischio di baciare Pulcinella Furioso. (Orlando innamorato potrebbe parerti scontato.)
Poi siamo rotolati giù. Il sole che costeggiava la discesa richiamava i pensieri non vani che si erano succeduti. Gli affetti adatti alla giornata erano dovuti ad una vicinanza che riuscivamo sempre a restituirci non più equivoca.
So che dovrò fare il conto delle parole da risparmiare. Per concludere senza alcun debito quello che si è appena proposto come una nuova possibilità di comprensione.