33 giorni di guerra
Panchine alberi aiuole e tavoli in file ordinate accolgono la furia di vivere e morire che qui la vita è una scritta sul muro sono file ordinate ogni ora per il pane e il caffè le coperte e resti d’amore senza voce.
La voce è questione di bombe e i sonnambuli hanno fame vizi e collane e non si sa quante volte per dire qualsiasi cosa ci sia da dire tacciono per risparmiare il fiato per la battaglia e piuttosto agitano mani e gambe mozzate e ridono perché finché c’è un volto c’è speranza.
Qua si avanza secondo questo genere di proclami e poi tanto nessuno fuori si è fatto un’idea di quello che a noi è evidente cioè che la vita dei corpi si accresce in proporzione al frastuono dei bombardamenti e ogni menomazione aumenta la somiglianza della furia di morire con la furia di vivere perché i morti nei letti di pietà sono accanto a noi vivi nei nostri letti di fortuna e pietà e fortuna (avvicinate dalla miseria di spazio causata dal conflitto) ci levano il giudizio che prima di questa invasione ci teneva al mondo sposati alla paura.
Ora panchine alberi aiuole e tavoli in file ordinate accolgono la furia dei vivi e dei morti e i morti sono più vivi di tutti sono più vivi che mai e mangiano con noi il pane e depongono rami carichi di mimosa nei barattoli vuoti del miele che almeno fino a che dura giù nel rifugio divoriamo affamati in un battito d’ali ogni mattina.
Questa speciale generazione di morti cui questa speciale forma di guerra ha dato vita partecipano insieme a noi alle battaglie ai tiri di mortaio ai matrimoni e alla lettura dei classici con le teste che ciondolano scintillanti e stanche sui banchi di macerie.
Questi morti ombre indistruttibili di questa terra rovesciata siamo noi.
Noi più genericamente siamo comunque sempre (in guerra e in pace) quello che è rimasto di tutto quanto va via.
Non c’è da aver paura.